La città, sorta in funzione del percorso della via Flamina tra Acquasparta e Sangemini, probabilmente nello stesso periodo della sua costruzione, raccolse le popolazioni prima sparse sulle colline e nelle pianure circostanti, attratte dal nuovo benessere dato dalla vicinanza di una grande via di comunicazione. Molto scarse sono le tracce delle fasi edilizie più antiche della città, in epoca repubblicana, mentre molto più ampie sono le documentazioni imperiali, riferibili in primo luogo alla generale ristrutturazione urbanistica di età augustea. Il monumento forse più significativo della città è quello stesso che ne determinò l’origine, cioè la grande strada consolare, lastricata con basoli di pietra calcarea, che l’attraversa da sud a nord come cardo maximus: lungo il suo tracciato si collocano alcuni dei più significativi monumenti pubblici ed una parte delle costruzioni private finora rimesse in luce. Il maggior complesso architettonico della città, che rappresenta anche il centro della vita pubblica e amministrativa del municipium romano, è il foro su cui prospettano i templi gemini, la curia, e, ad ovest della strada la basilica. Un decumanus, staccandosi dalla via Flaminia poco oltre il foro, conduce verso ovest alla zona degli edifici per spettacolo, l’imponente anfiteatro e il grazioso teatro, entrambi appartenenti ad un unico disegno costruttivo, anche se realizzati in tempi diversi.
ANFITEATRO E TEATRO
A nord, l’ingresso in città della via principale è sottolineato da un imponente arco originariamente a tre fornici, noto da sempre con il nome di “arco di S. Damiano”; subito fuori alcune tombe introducono nella necropoli monumentale romana della città. Verso sud invece sorgono alcune cisterne ed un edificio termale, in origine decorato da mosaici di grande rilievo. Assieme all’arco di S. Damiano, il monumento più noto della città è l’omonima chiesetta, sorta intorno all’XI secolo sui resti di un probabile macellum di età augustea del quale ha ampiamente utilizzato le strutture murarie e decorative. Sappiamo che già il Cardinale Federico per ornare il Palazzo che stava facendo costruire, fece trasportare ad Acquasparta alcuni reperti da Carsulae, che i Cesi consideravano loro proprietà.
Una rarissima immagine, forse la più antica testimonianza, delle rovine carsulane si può vedere nel fregio tardo cinquecentesco nel palazzo della Maschera d’oro a Roma. La decadenza del centro romano è direttamente collegata al progressivo abbandono del tratto occidentale della Flaminia, al quale fu preferito il ramo orientale, che attraversava Interamna e Spoletium; a ciò si aggiunsero le sempre più frequenti incursioni di popolazioni barbariche e, forse, un grave terremoto: gli abitanti si rifugiarono pertanto nei centri abitati vicini. Nella città, ormai abbandonata, si radunarono alcuni gruppi religiosi che dettero origine ad insediamenti anche di notevole rilievo. Il monumento più celebre della città è infatti la chiesa dei Santi Cosma e Damiano, ricavata nella struttura di un edificio forse a carattere pubblico e ricca di materiali di reimpiego. E’ uno dei pià significativi monumenti dell’antica città: la piccola chiesa, ad aula preceduta da un pronao porticato, è stata ricavata sulla struttura di un edificio romano abbandonato del quale ha ampiamente utilizzato sia le murature che molti elementi decorativi. La lunetta in marmo al di sopra della porta di ingresso è decorata con una serie di figure di carattere sacro fortemente schematizzate, nelle quali sono da identificare i santi titolari del culto.
PONTE FONNAIA
Imponente struttura che permette alla via Flaminia di attraversare un modesto corso d’acqua, il fosso di ponte Fonnaia – tributario del torrente Naia, in secca per la maggior parte dell’anno, ma impetuoso durante le piene – e di superarne la profonda forra con i relativi notevoli dislivelli, mantenendo la strada secondo un piano orizzontale, più agevole da percorrere. L’adattamento all’alveo del torrente ha obbligato i costruttori a realizzare una struttura obliqua, risolvendo problemi tecnici notevoli con grande capacità: costruito con blocchi di travertino disposti secondo filari orizzontali, il ponte, come gran parte delle opere d’arte che si trovano lungo il tratto “martano” della strada, non fa parte della originaria struttura, ma delle ampie operazioni di restauro e ripristino operate al tempo di Augusto fra la fine del I sec. a.C. e l’inizio del I sec. d.C.
CATACOMBA DI VILLA S.FAUSTINO
È l’unica catacomba nota dell’Umbria e una preziosa testimonianza della diffusione del cristianesimo arrivato in questo territorio già dal IV secolo d.C. proprio attraverso la Flaminia, che dovette continuare a svolgere il suo ruolo di collegamento e di mezzo di penetrazione, pur rivelando un declino nella frequentazione. Si trova nel comune di Massa Martana, a breve distanza dal tracciato antico della via Flaminia e dal Ponte Fonnaia. La prima segnalazione dell’esistenza di una catacomba presso Villa S.Faustino a Massa Martana risale al 1691, quando Giuseppe Mattei nobiluomo di Todi, la descrisse in una missiva indirizzata ad un amico. In quell’epoca la catacomba era nota agli abitanti ed eruditi locali con il nome di Grotte di Traiano. Dopo questa data il cimitero non viene più menzionato. Si ritornò a parlare delle catacombe di S.Faustino in occasione del secondo Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana, quando venne presentata una relazione da parte di G. Sordini, edita due anni più tardi; infine nel 1938 verrà inserita nel volume di G. Becatti per la Forma Italiae dedicato ai territori di Carsulae e Todi.
I primi scavi ebbero luogo solo agli inizi degli anni ’40 per interessamento di un canonico Don Mario Pericoli, che in due campagne di scavo liberò dalla terra la maggior parte delle gallerie della catacomba. I lavori di sterro furono interrotti a seguito degli eventi bellici e la catacomba, come altri monumenti sotterranei, venne utilizzata come rifugio antiaereo. Nel 1971 venne realizzato l’accesso attuale a cura della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, sotto la guida di U.M. Fasola, che, dieci anni più tardi, patrocinò una campagna di scavo, affidata al Prof. Giordani, che liberò totalmente dalla terra l’intero monumento. Si tratta di una piccola catacomba di campagna con limitato sviluppo, vi si accede da un ingresso moderno, orientato ad est, che attraverso una galleria principale lunga 22 metri, penetra all’interno della collina fino ad una profondità di circa 7 metri dal piano di campagna. Da essa si dipartono altre cinque gallerie, due su ogni lato, di cui una con andamento semi-circolare. Lungo le pareti, seguendo l’andamento del livello pavimentale, sono disposti i loculi, su più ordini, fino al soffitto della catacomba, quasi tutti aperti e privi della copertura, mentre sul pavimento sono state scavate alcune “formae”, chiuse con tegole poste per piano, alcune delle quali recano segni circolari ottenuti prima della cottura. Le lucerne e gli altri materiali, recuperati nel corso degli scavi degli anni Ottanta, indicano una cronologia compresa fra il IV eV sec. d.C., confermata dal rinvenimento di una moneta bronzea emessa tra il 330 e il 346, periodo in cui il cimitero rimase in uso. La piccola catacomba non ha restituito alcuna epigrafe, testimonianza negativa che sembra indicare l’appartenenza delle sepolture ad un ceto non alfabetizzato. All’esterno della catacomba, sul lato meridionale di questa, recenti lavori di sistemazione, come accennato sopra, hanno messo in luce un’area cimiteriale sistemata all’interno di una piccola basilica. L’edificio funerario è stato concepito e costruito dagli antichi cristiani sia per sistemare altre sepolture e presumibilmente, quelle di maggior prestigio, sia per svolgere attività più strettamente cultuali. Il termine antico per designare questi luoghi è coemeterium, che deriva dal greco e significa “dormitorio”. Il termine catacomba, che in origine definiva soltanto l’importante complesso di San Sebastiano sulla via Appia, fu poi esteso a tutti i cimiteri cristiani. Questa Catacomba documenta quindi una diffusione piuttosto precoce del Cristianesimo e un lungo ed ininterrotto processo di vita e cultura proprio attraverso la via Flaminia, che pur denunciando un declino della frequentazione, continuò a svolgere un ruolo di raccordo e penetrazione nel comprensorio.
EREMITA DI CESI O PORTARIA
Situato a 800 metri di altezza sul Monte di Torre Maggiore (Terni) a circa 9 km da Acquasparta, l’eremo è avvolto dal silenzio dei boschi lontano dalle principali vie di comunicazione. La struttura sorge lungo un’antica via che in passato collegava Carsulae a Spoleto, attraverso i monti Martani. Qui preesisteva un eremo dove, verosimilmente, nel IV secolo si erano ritirati i santi vescovi siriaci Procolo e Volusiano e accanto al quale i benedettini eressero una cappella che doveva servire da rifugio per una piccola comunità di monaci e come luogo di culto per i pastori che si spostavano stagionalmente nel territorio. Nel 1213 Francesco d’Assisi, percorse tutta la provincia orientale di Terni, quindi lasciato il Sacro Speco del contado di Narni dopo una breve visita ad Amelia, raggiunse il castello di Sangemini. Desideroso, come sua consuetudine, immergersi nella solitudine di qualche anfratto vicino, venne a sapere dell’esistenza di un romitaggio benedettino posto sulla cima di un aspro monte, tra i borghi di Cesi e Portaria. Quassù frate Francesco si sarebbe trattenuto due mesi e tre giorni, immerso nella solitudine boschiva del monte o tra le rocce della spelonca (grotta di S.Francesco), compose l’“Exhortatio ad Laudem Dei”(autentico abbozzo del Cantico) in latino di sua mano su di una tavola di legno devotamente conservata, almeno fino al ‘500, nel sacro oratorio. Il poverello di Assisi tornerà ancora in quei luoghi a temprare il suo spirito almeno altre tre volte nel 1218 e nel 1220-21 e nel 1226 poco prima di morire. Nel 1221, dopo una notte insonne causata dall’acuirsi della sua malattia, l’indomani, malgrado una sostenuta riluttanza, «Francesco fu condotto da Pietro ad una fonte presso Acquasparta». Frate Francesco bevve quell’acqua prodigiosa e trovò giovamento (da allora la fonte venne chiamata “Fonte di S. Francesco”).
Frate Francesco volle che fosse eretta una chiesetta dedicata all’ Annunziata, delle stesse dimensioni della “Porziuncola” di Assisi e gradatamente il corpo conventuale crebbe in dimensione ed importanza.
La presenza di frati si fece così nel tempo più numerosa fino a raggiungere anche le trenta presenze e fu necessario allargare il corpo conventuale in fasi successive. La vita conventuale continuò ad esser intensa e proficua, e centro di alta e rigorosa spiritualità Francescana.
REFETTORIO
Nel 1380 il convento passò al Beato Paoluccio Trinci da Foligno, diventando un caposaldo della rinnovata famiglia dei Frati Minori. Nel 1420 vi giunse anche San Bernardino da Siena, alla cui opera si deve l’aspetto attuale. La tradizione vuole che la Corona Francescana, tuttora recitata dalle famiglie minoritiche, ebbe qui origine nel XV secolo. L’Eremo ospitò anche altri Santi tra cui il Beato Francesco di Pavia che ammansì un lupo, il Beato Giovanni Spagnolo al quale apparve Gesù vicino a quello che oggi si chiama Leccio Santo, nel 1493 fu Superiore il Beato Francesco da Brescia. Nel secolo XVI inoltrato, il cenobio passò ai Frati Minori Riformati, che vi rimasero fino all’ invasione francese. Data la posizione molto isolata, a fine ‘700 il Convento non risentì della soppressione Napoleonica ma, dopo l’unità d’Italia, fu definitivamente colpito dal decreto Pepoli del 1860, con il quale il Convento passò al demanio dello Stato. I frati furono autorizzati ad abitarvi fino al 17 gennaio 1867, giorno in cui l’arrivo dei gendarmi e delle loro minacce, li fece scappare. Da allora mai più fecero ritorno. Lo Stato lo dette in locazione e l’affittuario, per prima cosa, liberò i locali da tutte quelle “cianfrusaglie” che vi aveva trovato: il coro, i confessionali, le tavole che pavimentavano alcuni locali: tutto fu venduto come legna da ardere. Poco tempo dopo il convento fu venduto alla famiglia Eustachi di Cesi, che lo trasformò in un casale di contadini con annessi pollaio, porcilaia, stalla. Dal 1956, dopo essere stato adibito a svariati usi, prevalentemente colonici, è rimasto in stato di completo abbandono.
Eremita prima del 1991 e dieci anni dopo
Dopo un lungo periodo di abbandono con distruzione e saccheggi, dal 1991 la Romita è stata riscoperta. Grazie alla fede, alla fatica e alla costanza di centinaia di amici giovani o rimasti giovani guidati da fra’ Bernardino Greco che trovarono allora solo ruderi e macerie divorate dal bosco. Dopo anni di duro lavoro, riuscirono a riportarlo all’antico splendore. Pellegrini, famiglie, gruppi di ragazzi, viaggiatori: ogni anno sono in 3-4 mila a trascorrere qui almeno una notte. Dopo 58 anni di permanenza nell’Ordine (fatto frate nel 1955 all’età di 16 anni), ne è stato estromesso nel 2013 per reiterata e ostinata disobbedienza all’ordine di lasciare la Romita. Ribelle per amore della Romita. Ora a custodire la Romita c’è ancora lui Bernardino spogliato dall’abito talare ma rimasto nella fede e fedele all’Eremo di S.Francesco.
CONVENTO DI S.PIETRO
Il complesso dei Cappuccini fu fondato tra il 1580 e il 1584 a ridosso dell’antica chiesa di San Pietro, risalente ad Arnolfo ( anno 962 ), è posto sul monte Scoppio, conserva ancora l’ antico organismo a due piani, ed è costruito su un terrazzamento artificiale, probabilmente di origine Romana, di un’alta e scoscesa rupe, costituendo un tutt’uno con essa e con la sua conformità ricca di bosco ceduo e misto formato da cerri, roverelle, carpini e lecci. A proposito del cenobio dei francescani Cappuccini di Acquasparta, oggi ridotto a brandelli di mura, si riporta quanto scritto da padre Bernardino da Colpetrazzo, religioso vissuto e morto in detto luogo nel 1594 nella sua opera “ Historia ordinus fratrum minorum Capuccinorum (1525-1593)” . Detto Convento si trova a un miglio da Acquasparta nella terra di Portaria in una selva di proprietà del Duca Cesi, non si sa chi abbia fondato detto Convento, ma si sa che prima dei frati Cappuccini vi fosse un eremita che abitava in una stanzetta vicino alla chiesa detta S.Pietro. Il detto romitorio venne dato ai padri cappuccini che vi inziarono ad abitare intorno al 1535. Nel 1594 era diffusa una epidemia con febbre maligna e contagiosa e, trovandosi qui il duca Federico I con tutta la famiglia, si ammalò tra gli altri il suo primogenito di appena 9 anni: il futuro Principe dei Lincei. questi aveva una brutta pleurite da aver difficoltà a respirare e i medici avevano perduta quasi ogni speranza. Il padre e la madre molto preoccupati, mandarono la notte tre messi l’uno dopo l’altro a raccomandarlo alle orazioni di fra’ Bernardino il quale vedendosi così sollecitato, disse al terzo: ritornate a Palazzo e dite alla febbre che io le comando da parte di Dio che se ne parta. Così appena tornati, l’infermo si addormentò e riposò per cinque ore dopo le quali svegliatosi si trovò sano e salvo con grande stupore dei medici che sapevano del male incurabile. I Cesi continuarono ad avere una grande venerazione per fra’ Bernardino ed era considerato santo dalle popolazioni vicine. Quando nel Convento di S.Pietro in monte Scoppio, il 7 febbraio 1594 egli si spense, il padre del Linceo fece apprestare un grande ed ornato sarcofago di piombo, in cui vennero chiuse le spoglie venerate del frate, poi deposto davanti la Cappella di San Felice nella chiesa conventuale.
Nel 1601, a spese per maggior parte della ecc.ma signora Isabella Liviani, fu fatta la chiesa e altre stanze e più tardi, nel 1642, furono aggiunte quattro infermerie e ristrutturato il tutto a spese del Duca di Acquasparta. Il Convento contiene 18 celle e 4 infermerie, non ha proprietà ne beni stabili, non ha entrate e si sostiene con le elemosine delle popolazioni vicine. Dapprima fu devastato dalle truppe napoleoniche e poi abbandonato con la demanializzazione dell’unità d’Italia. E’ stato poi oggetto per 26 anni di contenzioso fra la cava adiacente che voleva estendere l’area di estrazione e il Ministero dei Beni Culturali affiancato da Italia Nostra, conclusasi con la rinuncia al giudizio da parte della ditta Colacem. Ora prevale l’abbandono e l’incuria di chi avrebbe dovuto salvare e recuperare il bene.
FORESTA FOSSILE
I tronchi visibili nel sito paleontologico della Foresta fossile di Dunarobba, vennero alla luce in località Casaccia, a poca distanza da Avigliano Umbro (TR) tra il 1979 e il 1987, in una cava di argilla, utilizzata da una vicina fabbrica di laterizi. Le prime scoperte iniziarono da parte del principe Federico Cesi nei primi anni del 1600 quando, con alcuni scienziati con cui aveva fondato a Roma l’Accademia dei Lincei, si occupò di questi reperti che chiamarono metallofiti, cioè a metà tra le piante e i metalli. In particolare, tra il 1620 e il 1637, il linceo Francesco Stelluti da Fabriano , per incarico dello stesso Federico Cesi, cominciò a studiare con metodo scientifico questo legno fossile, informando dei ritrovamenti anche Galileo Galilei. Nel 1637 dai suoi studi nacque il Trattato sul legno fossile minerale nuovamente scoperto, in cui l’autore riportò una descrizione geografica del sito e una minuziosa ricostruzione del materiale ligneo. Gli abitanti del luogo, in gran parte contadini, non diedero mai grande importanza a quei tronchi; il loro atteggiamento cambiò solo agli inizi del Novecento e, in particolare, dopo lo scoppio della prima guerra mondiale quando, per far fronte alle crescenti richieste di combustibile per il riscaldamento delle abitazioni, e per le industrie, si avviò la ricerca sistematica e quindi l’estrazione di torbe e ligniti . Tuttavia la foresta fossile di Dunarobba venne scoperta solamente negli anni settanta del XX sec. , scavi che si protraggono fino al 1987. La foresta fossile comprende una cinquantina di tronchi di alberi mummificati e non fossilizzati che la rende unica al mondo. Il diametro dei tronchi fossili varia da 1 metro a 4 e le altezze possono arrivare fino a 8 metri. Tuttavia recenti sondaggi hanno dimostrato la presenza di lembi di legno fino a 25 metri di profondità rispetto all’attuale piano di scavo. Grazie agli esami condotti utilizzando le moderne metodiche scientifiche, esami sia istologici che dei pollini dei frutti e delle impronte delle foglie , si può affermare con certezza che si tratta di un bosco di conifere del genere Taxodion, probabilmente una forma estinta di sequoia, molto simile all’attuale Sequoia sempervires , che può raggiungere i 100 metri di altezza, esistente solo in una ristretta zona della California .
La posizione eretta dei giganteschi alberi ha permesso ai geologi di studiare il terreno che si trova alla base dei tronchi, come se fosse il suolo su cui attecchirono milioni di anni fa, consentendo così di trarre importanti conclusioni per la conoscenza del paleoambiente , cioè dell’antico ambiente in cui sono vissuti i tronchi e, più in generale, per la comprensione della storia geologica dell’Umbria meridionale. Tali studi fanno supporre che la foresta fossile di Dunarobba sia esistita già tre milioni di anni fa, nel Pliocene medio-superiore, ovvero alla fine del Cenozoico sulla sponda dell’immenso lago Tiberino, un lago a forma di “y” rovesciata, che si estendeva da nord a sud per gran parte dell’Umbria, a partire all’incirca da Città di Castello. La conservazione dei tronchi in posizione di vita e il mantenimento pressoché totale delle caratteristiche del legno originario, sono ragionevolmente ascrivibili ad un seppellimento continuo e graduale avvenuto all’interno dell’area paludosa situata sulle rive di questo lago. Inoltre l’area era sottoposta ad un graduale sprofondamento, cioè ad fenomeno geologico noto come subsidenza.
LA CASCATA DELLE MARMORE
La Cascata delle Marmore è la cascata più famosa d’Italia. Si trova nella Valnerina, vicino la città di Terni a circa 30 km da Acquasparta, nel meraviglioso Parco Naturale della Cascata delle Marmore. La Cascata delle Marmore è la più alta d’Europa: il dislivello complessivo tra la cima e la base è di 165 metri, suddiviso in tre salti che le donano lo spettacolare aspetto attuale. La Cascata ha origini antichissime, risalenti addirittura al 271 a.C., in piena epoca romana. In questo periodo infatti il console romano Manio Curio Dentato ordinò la costruzione di un canale per far defluire le acque stagnanti del Velino verso il Nera, deviando il corso del fiume e formando la Cascata delle Marmore. Il canale era stato reso necessario dai gravi problemi creati dal passaggio del Velino nella pianura Reatina, la cui particolare conformazione del terreno creava una palude stagnante pericolosa per la popolazione residente. Con il tempo, altri interventi sono stati effettuati per contrastare gli allagamenti nel periodo di piena dei due fiumi, che causavano non poche avversità agli abitanti delle zone circostanti. Vennero costruiti due nuovi canali, uno nel 1422 realizzato dall’ingegnere Aristotile Fioravanti, e uno nel 1547 da Antonio Da Sangallo, ma il pericolo di inondazioni continuò a persistere ancora. Fu solo con altri due interventi, nel 1601 e nel 1787 che la Cascata assunse il suo aspetto attuale. Il nome Marmore deriva dai peculiari sali di carbonato di calcio che si sedimentano sulle rocce della montagna, il cui riflesso della luce del sole li fa assomigliare a cristalli di marmo bianco. Marmore è anche il nome del vicino paese medievale.