Dalla famiglia Bentivenga, nobili d’Acquasparta, discesero molti personaggi importanti con incarichi sia civili che religiosi: il più importante fu il Cardinale Matteo, Frate Oddone che nel 1254 ebbe il titolo di Ministro del convento di S.Fortunato a Todi, Galgano di Tommaso che nel 1294 fu nominato Podestà di Todi, Ranerio che nel 1297 fu podestà di Gubbio, Angelario , sempre un frate minore, venne eletto Vescovo di Todi nel 1278, Bentivenga, suo fratello , nel 1259 è Rettore dell’ospedale della carità di Todi e Vescovo fu nominato Cardinale nel 1278, Fra Gentile Vescovo di Nepi nel 1322. Anche Paolo faceva parte di questa importante famiglia. Nacque ad Acquasparta intorno al 1240; subito desideroso di servire Dio e separarsi dall’occasione di offenderlo, circa nell’anno 1270 fu ammesso alla religione dei frati minori e visse molti anni nell’ordine laico o converso, avendo cura continua degli infermi e quelli servi con smisurata carità e molta pazienza, esercitandosi ancora con molto fervore nell’orazione e nella puntuale obbedienza alla sua Regola.
Per volere di S.Francesco quando venne ad Acquasparta e fu beneficiato dalle acque della fonte Amerino, vicino alla chiesetta della Madonna della Stella venne costriuto un leprosaio che doveva accogliere i malati ed i bisognosi di cure.
Nell’anno 1250 il Comune d’Acquasparta concesse ai frati minori un luogo ove edificarono una chiesa in onore di S. Francesco e nel 1290 il Cardinale Matteo d’Acquasparta ristrutturò la chiesa spostandone l’ingresso nella parte opposta e fece costruire un cortile porticato ed un convento, ristrutturò anche il leprosaio che divenne un ospedale.
Qui vi mandarono ad abitare quel Beato Paolo, il quale esercitando lo stesso ufficio d’infermiere, si fece illustre con molte altre virtù di cui il Signore lo dotò, particolarmente con la cieca e pronta obbedienza ai suoi superiori, con la profonda umiltà e col mantenersi sempre povero e mendico. Poco dopo fu mandato ad abitare nel convento di Arquata, terra sotto la diocesi d’Ascoli e prefettura di Norcia. In questo luogo ebbe il medesimo ufficio d’infermiere, procurando nelle virtù di esser vero figlio del suo padre, S. Francesco, e in ogni cosa cercò di seguire le sue vestigia e in particolare la detta pronta obbedienza; infine carico di anni e di meriti se ne passò al Cielo nello stesso convento di Arquata il 22/10/1303. Il Signore, a sua intercessione, operò molti miracoli. Di esso oltre che in altri autori nei Cataloghi «de Beati Francescani», si legge nel Martirologio Francescano: 22 ottobre, Arquata in Territorio Nursino, B. Pauli, confessoris, fide o gratiamiraculor… illustris.
Federico Cesi, principe dei Lincei, ebbe i natali in Roma il 26 Febbraio 1585 nel palazzo in via della Maschera d’Oro da Federico, nobile romano, e da Olimpia Orsini figlia di Giovanni, signore di Mentana, che aggiunse nuovo lustro alla famiglia.
Sua madre era una donna raffinata e molto pia ed influì profondamente sulla formazione spirituale di Federico. Con il padre, invece si creò un inevitabile dissidio, un contrasto profondo ed insanabile tra due mondi: l’uno grettamente abbarbicato al passato e alle tradizioni, l’altro aperto verso l’avvenire, alle scoperte e alle ricerche. Purtroppo sull’infanzia e sull’adolescenza del Duca ci rimangono solo pochi documenti. Sappiamo inoltre che all’età di nove anni, in Acquasparta, la sua vita fu sul punto di essere troncata da una malattia mortale, e che la sua salvezza fu attribuita ad un intervento taumaturgico del cappuccino Padre Bernardino da Colpetrazzo, una delle più illustri figure, per pietà e sapienza, fiorite in Umbria
Il fatto avvenne intorno all’anno 1594, in cui Padre Bernardino si era ritirato nel Convento di S.Pietro in Monte Scoppio ad Acquasparta, per scrivere la storia del suo Ordine.
Così frà Benedetto Sanbenedetti negli “Annales fratrum minorum capucinorum” narra l’episodio:
L’anno 1594 si attaccò in Acquasparta una infermità universale di febbre maligna e contagiosa, e ritrovandosi sua Eccellenza con tutta la famiglia, si ammalò tra gli altri anco il Signor Federico primogenito del Duca di febbre e pleurite in maniera di non potendo haver respiro eccetto che con grandissima difficoltà, i medici avevano perduta quasi ogni speranza della di lui salute. Il padre e la madre, disperati, mandarono la notte tre messi l’uno dopo l’altro a raccomandarlo alle orazioni di frà Bernardino il quale al terzo disse di ritornare a palazzo e di dire alla febbre che io comando da parte di Dio che si parta insieme con la puntura.
Appena intimato il precetto, l’infermo riposò cinque hore dopo le quali risvegliatosi si trovò sano e salvo con grande stupore dei medici, i quali sapevano che il male era mortalissimo. I Cesi seguitarono a mostrare sempre, verso Padre Bernardino tenuto in concetto di santità dalla popolazione dei castelli vicini. Quando, nel convento di S.Pietro il 7 febbraio 1594 egli si spense, il padre del Linceo, Federico I° Duca di Acquasparta, fece apprestare un grande ed ornato sarcofago di piombo, in cui vennero chiuse le spoglie del frate, poi deposto davanti alla Cappella di S.Felice nella chiesa conventuale.
La gravissima malattia che lo colse nell’infanzia, probabilmente fu la causa della fragilità della sua salute che accompagnò sempre il breve ciclo della vita del Linceo.
Dalla madre, la pia Olimpia Orsini, derivò certamente a Federico quella fede profonda, quella sensibilità verso il sapere, la conoscenza e l’arte, oltre a quei tratti di squisita gentilezza velati di malinconia. Ella ci appare, di fronte all’irruenza del marito, raccolta, spaurita e pregante, affranta sempre nel cercare di mitigare il contrasto tra padre e figlio, e al figlio lasciò tutte le sue sostanze, così da attenuare il malessere economico in cui egli si sarebbe sempre dibattuto.
La formazione intellettuale del Principe dei Lincei avvenne lontano da ogni accademia, ossia nell’ambito famigliare, con l’aiuto di lettori puri, ma con carattere prevalentemente autodidattico.
Il primo fu Francesco Stelluti da Fabriano, suo lettore privato di geometria e matematica e come si vedrà suo primo compagno Linceo che lo accompagnerà per tutta la vita.
Altro lettore, che avrà una grandissima influenza su Federico, fu l’olandese Giovanni Eck il quale leggeva lezioni di diverse scienze come la filosofia platonica e la cosmologia. Nel 1601, appena addottorato in fisica e medicina nello studio di Perugia, trovò come primo mecenate il nobile spoletino Benedetto Gelosi e da qui inviò al Principe Cesi, sapendo di fargli cosa gradita, dei semi rarissimi trovati in un luogo deserto delle montagne intorno. L’anno dopo passò al servizio dei Caetani e quindi degli Orsini signori di Scandriglia. Durante le sue esperienze mediche venne in contrasto con lo speziale del luogo che era solito svuotare le tasche agli ingenui vassalli del luogo per risolvere i malanni con erbe esotiche e altri artifici invece della professionalità del medico olandese. Un contrasto inevitabile che passò dalle parole ai fatti: gli venne teso un agguato mentre era a cavallo e fu bersaglio di lancio di pietre da parte di questo speziale.
Riconosciutolo lo insegui fino a raggiungerlo ed ucciderlo a fil di spada. Ne seguì un breve processo a Roma dove gli fu riconosciuta la legittima difesa, ma tutto fa pensare che Federico, amante di giovani di ingegno e che già conosceva di fama, si adoperasse ad aiutarlo per l’assoluzione. Quindi, appena uscito di prigione a fine giugno del 1603, Giovanni Eck passava al servizio dei Cesi e fu ospitato nel palazzo in via della Maschera d’oro. Il giovane dottore era uno spirito libero teso verso il sapere con fervore di asceta e la vivezza del suo ingegno, animato da una fantasia esuberante, determinò un vero e proprio ascendente spirituale sul giovane marchese di Monticelli. Da una lettera del Principe allo Stelluti si apprende che i suoi maestri furono anche padre Alessandro e l’ Arabico. Sono nomi a cui non è stato possibile dare un volto, ma l’accenno all’arabico ci rivela da chi apprese la lingua ebraica ed araba e il padre Alessandro, forse un gesuita, presumibilmente lo indirizzò allo studio di quelle che egli chiamò “lingue maggiori” come il latino e il greco. La piccola corte del giovane Cesi nel palazzo di via della Maschera d’oro, oltre all’Ecchio ed allo Stelluti, ospitava anche il giovane ternano Anastasio De Filiis che non era suo lettore ma parente ed amico versato alle scienze matematiche e fisiche ed animato da un ardente desiderio di sapere.
Il loro non era tanto un rapporto tra docente ed allievo, quanto tra docente e docente, uniti dal bisogno di approfondire, l’uno con l’aiuto dell’altro, le leggi misteriose dell’universo. Fu così che durante i lunghi colloqui dei quattro giovani, particolarmente influenzati dall’irrequieto spirito del fiammingo, cominciò a germogliare l’idea di un’accademia che si facesse propugnatrice del sapere contro l’ignoranza ed il pregiudizio, sotto la luce delle nuove grandi verità naturali che già accennavano a scardinare il mondo aristotelico. Ed il 17 agosto del 1603 l’ideale edificio scientifico, definitivamente architettato dal Cesi, venne solennemente fondato.
Sorgeva così l’Accademia dei Lincei che il Principe Cesi, appena diciottenne, volle chiamare con il nome e l’emblema della Lince lungimirante. Lavorò praticamente tutta la vita alla stesura dello statuto dell’Accademia in cui venivano esposte le regole della vita dei Lincei.
I soci avrebbero dovuto condurre una vita in comune nell’austerità e sottoposta al celibato, avrebbero dovuto essere provveduti gratuitamente di musei, librerie e di tutto il necessario per la pratica delle scienze, avrebbero dovuto scambiarsi i risultati delle loro ricerche, non avere nessun vincolo terreno eccetto quello della “fratellanza” nella scienza. Le porte dell’Accademia erano quindi chiuse ai religiosi perché chi è vincolato ad altra regola non può liberamente dare la dedizione necessaria. Nei primi tempi, i quattro fondatori usavano riunirsi nel palazzo di via della Maschera d’0ro tre volte a settimana: la domenica, il martedì e il giovedì per tenere cinque lezioni di cui due affidate all’Eck e le altre dedicate alle esperienze intorno aquanto teoricamente esposto. Inizialmente non vi fu un vero capo o principe, i soci si chiamavano” fratelli”, il Cesi veniva solo considerato come “consigliere maggiore”. Cosicché, anche se in parte ispirata dall’Eck, l’Accademia dei Lincei fu sua e sua quella stupenda ideazione d’impronta universale e moderna. Il Cesi trattava principalmente la botanica, l’Eck la filosofia platonica, l’astronomia e le scienze medico-naturalistiche, lo Stelluti la geometria e la matematica e il De Filiis la storia.
Il padre, Duca Federico I, osservava il giovane figlio prima preoccupato dei suoi interessi e dei suoi compagni, poi andò maturando sempre di più un atteggiamento ostile nei loro confronti.
Lui, come d’altro canto tutti gli esponenti delle famiglie baronali, non poteva che essere quello che era: fin dalla giovinezza aveva conosciuto solo la cruda educazione delle armi, l’interesse per l’equitazione, il controllo dei propri possedimenti e dei vassalli ed aveva subito il condizionamento della mentalità tipica di una casta chiusa, privilegiata, orgogliosa da consolidare ed ingrandire con parentadi, colleganze ed ingerenze prelatizie. In questo modo di intendere la vita la cultura aveva un valore di trascurabile importanza. Il giovane Federico era quindi un’eccezione, forse anche per la sua salute cagionevole, un segno dei nuovi tempi; unici suoi interessi erano la conoscenza, la ricerca e lo studio. Ricordiamo l’acuta lotta controriformista in pieno atto, il recente rogo di Giordano Bruno, la prigione di Campanella e gli interventi della Chiesa contro certi atteggiamenti liberi che le nuove indagini scientifiche andavano assumendo, erano i buoni motivi per far preoccupare il padre.
Quando questi interessi del figlio incominciarono ad apparirgli pericolosi, cercò di ostacolare le sue attività cercando di isolarlo dai suoi amici. Altre ragioni si aggiunsero e contribuirono ad aumentare il contrasto: per esempio l’avversione del giovane al matrimonio doveva apparirgli come un sacrilegio soprattutto per la tradizione che il primogenito di una casata doveva perpetuarne il nome e renderla sempre più potente. L’Eck era considerato l’elemento più autorevole, il più vicino all’amicizia del Linceo ed in grado di influenzarlo pesantemente: all’inizio non osò staccarlo ma il Duca anzi, mostrando considerazione, lo chiamò spesso al suo cospetto per consulti medici e facendogli promesse. Ma questo non bastò. I Lincei vennero accusati di seguire pratiche magiche e negromanzia e vano si mostrò il seguire scrupolosamente le pratiche religiose e l’atmosfera si andava facendo sempre più pesante. Questo fino a dicembre del 1603: con il sopraggiungere delle feste natalizie, una certa distensione rianimò i Lincei e pensarono di inaugurare solennemente l’Istituto fondato quattro mesi prima.
La cerimonia ebbe luogo il giorno di Natale dopo un fraterno e gioioso convivio, il giovane Federico pronunziò un discorso che commosse ed esaltò i “fratelli” e fu allora che venne acclamato dagli altri quale loro ”Principe in perpetuo”; l’Eck fu dichiarato “primo consigliere”, lo Stelluti “procuratore” e il De Filiis “segretario”.
La cerimonia fu solenne, il Cesi vestito in abito talare ornato di porpora, dopo il discorso solenne appese al collo dei “fratelli” la collana aurea con la Lince quindi, nel fervore religioso che esaltava il loro spirito, si inginocchiarono cantando il Te Deum e stabilirono che ogni giorno avrebbero recitato un salmo di David e, su proposta dell’Eck, fu eletto quale santo protettore il Santo dai sublimi pensieri: Giovanni Evangelista.
Trascorso il Natale, esauritasi l’eco dei canti che invitavano alla pace, le avversioni ricominciarono più cieche ed ostinate che mai ed il Duca cominciò a mostrare la sua aperta ostilità verso l’Eck. Questi fu cacciato dal palazzo, il De Filiis si ritirò nella casa romana dello Stelluti dove viveva. Sembrava lo scioglimento dell’Istituto ma il Principe, mai domo, ideò la prima fuga nel palazzo di Acquasparta lontani dalla opprimente atmosfera romana. Fu un tentativo vano perché il Duca, dopo diverse vicissitudini, convinse il figlio a tornare a Roma mostrandosi accondiscendente. Questi fatti sono descritti nelle Gesta Lynceorum scritte dallo stesso Eck ed apprendiamo che questa fu una calma apparente in quanto le mire del Duca erano di far fuori definitivamente i suoi amici: dopo aver riesumato inutilmente il processo dell’Eck, fu imbastito in segreto il processo che si concluse con la sua condanna per eresia e l’ordine di catturarlo. Ma non poteva essere catturato perché era al servizio diretto del giovane principe che non avrebbe mai concesso licenza.
Ma ormai per lui il clima era diventato irrespirabile e quindi lasciò Roma, per ritornare nel 1606. Nel frattempo lo Stelluti si era trasferito a Parma che impartiva lezioni alla corte ducale, il De Filiis si ritirò a Terni e l’Eck andava vagando per l’Europa e fu difficile mantenere per il principe un collegamento epistolare con lui, che invece continuò con gli altri ed iniziò a comunicare anche con lo scienziato napoletano Giovan Battista della Porta.
Passato più di un anno, sembrò cambiato il clima nei confronti del giovane medico che i suoi “fratelli” cercarono di far tornare in Italia: il giovane Cesi si munì di due documenti in cui il maestro di casa Cesi, Fabbri, dichiarava che Giovanni Eck era sempre vissuto nel timore di Dio e la nomina dello stesso a cittadino romano. La cautela naturalmente, imponeva dei passaggi graduali: prima arrivò a Parma dove era lo Stelluti ancora si trovava, poi a dicembre del 1605 arrivò a Spoleto ma era subito partito per Napoli per via di quel morboso sospetto verso tutti nonostante le rassicurazioni del principe. Comunque a marzo del 1606 si registra la sua presenza a Roma e poterono finalmente riunirsi i tre (lo Stelluti era ancora a Parma). Questo fino all’inizio del 1607 quando si trasferirono ad Acquasparta per qualche mese e ritornati a Roma il Cesi si accorse che il suo amico aveva perduto quella pace ritrovata e si convinse a lasciarlo libero di seguire il suo innato impulso di errare per il mondo. L’Eck partì al seguito di un certo marchese di Moja da cui però, raggiunta la Spagna, se ne andò errabondo, spinto dal torturante progredire del suo male. Ci fu un intensificarsi di relazioni del Cesi con il filosofo napoletano G.B. Della Porta. Presso di lui si recò il De Filiis per approfondire i suoi studi ma nel 1607 vi trovò la morte. L’accademia si ridusse quindi a due soci: il Cesi e lo Stelluti.
Il Cesi ebbe notizia del cannocchiale del Galilei nel 1609 quando lo presentò al governo veneziano. In realtà Galileo non si vantò mai della priorità dell’invenzione, ma solo di averlo costruito seguendo un ragionamento logico e soprattutto di essere stato il primo ad intuirne l’importanza per le “speculazioni celesti”. Del resto anche il Della Porta conosceva le proprietà delle lenti ed anche Keplero ma nessuno costruì prima di lui un “occhiale”. Intanto il principe Cesi si adoperava per far concedere al suo amico napoletano le licenze da parte delle autorità ecclesiastiche. Suo padre, intanto, non ostacolava più gli esercizi accademici, ma nel fondo del suo animo covava un rancore verso il primogenito che si mostrava così lontano dalle cose mondane e da ciò che avrebbe dovuto interessare il rampollo di una nobile casata. Così si convinse che il primogenito rinunciasse ai suoi diritti ed accadde che il Duca fece dono al secondogenito Giovanni, di tutti i beni di cui poteva disporre.
Nel 1610 il Cesi e lo Stelluti si recarono a Napoli ed il Della Porta venne accolto nell’accademia dei Lincei e con questo vi fu un vero e proprio risorgimento dell’Accademia languente ormai ridotta a due componenti. Furono aboliti i nomi accademici e l’aurea collana, sostituita da un semplice anello con una lince incisa. Segno di questo rifiorire fu l’interesse rivolto dal Cesi verso un manoscritto del medico napoletano Nardo Antonio Recchi, il così detto “Tesoro Messicano” che egli acquistò non appena il Recchi giunse a Napoli dalla Spagna. Nel 1570 il re di Spagna Filippo II, incaricò un medico naturalista spagnolo Hernandez, di recarsi in Messico per catalogare i tre regni della natura dell’antico impero di Montezuma. Ma il re non la pubblicò mai perché ritenuta poco pratica per farne uso nel campo medico. Vent’anni più tardi circa fu incaricato il medico napoletano Recchi, di fare un compendio ma anche questo rimase inedito.
Quindi il Cesi, venutone in possesso, lo integrò con le sue tavole filosofiche, il medico Giovanni Faber con le sue esposizioni medico zoologiche, il noto botanico Fabio Colonna con le sue “addizioni”, Giovanni Schreck con il suo vasto commento ed infine lo Stelluti con gli indici ed altre sette Tavole Filosofiche del Cesi.
Con il 1611 si aprì il periodo più importante della vita del Cesi e dell’Accademia: nella primavera ci fu l’incontro del principe con Galileo Galilei. Venne a Roma per poter dimostrare a quegli esponenti di una cultura un po’ ostile, perplessa e sospettosa, la verità indiscutibile delle sue scoperte.
Il giovane Cesi organizzò un convito di dotti in onore del Galileo: in quella notte si discusse della natura dei cieli e poterono guardare con l’occhiale di Galileo i quattro satelliti di Giove ed altre meraviglie celesti.
Nessun dubbio ci fu da parte del principe sulla verità delle scoperte galileiane, restò solo perplesso circa l’ammissione che la terra non fosse al centro dell’universo e gli vietò di giungere a conclusioni affrettate. E’ facile intuire l’ammirazione e l’entusiasmo di Federico nei confronti dello scienziato pisano e solo 11 giorni dopo il Cesi offrì l’anello accademico che Galileo accettò con sommo piacere. Poco dopo furono accolti nell’Accademia anche lo svedese e medico naturalista Giovanni Schreck, il direttore dell’orto botanico pontificio Giovanni Faber ed altri. Il 1612 fu l’anno della polemica di Galileo con il padre gesuita Cristoforo Scheiner sulla priorità della scoperta delle macchie solari. Il Cesi si offrì di pubblicare e divulgare lo scambio di lettere tra i due con il titolo “Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari”. Fu la seconda opera pubblicata dall’Accademia (dopo il De Nova Stella dell’Eck) e diede vasta risonanza ai Lincei e al loro principe. Fu in questo anno che il Cesi aderì alle teorie copernicane e i suoi genitori andavano interessandosi per farlo sposare. La scelta cadde sulla figlia del principe di Palestrina Francesco Colonna, Artemisia che sposò il 14 maggio del 1614 con cui tornò a Roma poco dopo. In una riunione dei Lincei del 26 luglio, lo Stelluti si presentò insieme a Giovanni Eck che mancava da ben otto anni. Grande fu la gioia del principe, anche se breve: infatti l’Eck cominciò a parlare in modo sconclusionato, frammischiando il latino con il greco e mostrando la sua già avanzata infermità mentale. Era un “fratello” perduto e fu condotto all’abbazia di S.Angelo presso Narni dove si spense nel 1620. Nel frattempo sua moglie, dopo aver abortito due gemelli, in seguito a delle complicazioni, morì nel novembre del 1615 e appena quattro mesi dopo morì anche sua madre la giovane Olimpia Orsini. Intanto a Roma si era messo in moto il Santo Uffizio per il sospetto di eresia di Galileo Galilei. Questi quindi si recò a Roma per perorare la sua causa e passò prima dal Cesi partecipando ad una riunione accademica dei Lincei e gli fu raccomandato di usare cautela specie nella “opinione copernicana”, ma lui aveva preferito infocarsi nelle sue opinioni e nel 1616 fu ammonito dal Cardinale Bellarmino per ordine della Sacra Congregazione, di abbandonare l’opinione che il sole sia al centro delle sfere celesti ed immobile (pena la prigione). Anche se l’Inquisizione mostrò mitezza nei confronti del Galilei, il colpo fu molto duro. Il principe intanto si sposò con Isabella Salviati e decise nel 1618 di trasferirsi al castello di Acquasparta lontano dai problemi romani e più idoneo al raccoglimento necessario alle sue speculazioni. Qui aveva istituito due orti botanici, uno dietro il palazzo ducale e l’altro poco fuori le Porte. Tra il 1618 ed il 1626 il Cesi ebbe molte preoccupazioni economiche legate al fatto che venne nominato dal padre amministratore dei beni famigliari e costretto a pagare i suoi debiti. Poi ebbe da sua moglie due figlie, Olimpia e Teresa, uniche a sopravvivere. Comunque mantenne attivo anche il suo interesse e l’attività accademica: stava con lui ad Acquasparta anche lo Stelluti che lo aiutava a portare a termine il Celispicio nel quale si voleva dimostrare la verità delle scoperte galileiane. Portò nell’accademia anche il giovane dotto, suo parente di parte materna, Virginio Cesarini che aveva studiato a Parma e i suoi interessi spaziavano dalle lettere alla giurisprudenza e da queste alle scienze naturali. Il Cesarini sostituì il principe a Roma alle adunanze accademiche. Morì a soli 29 anni per tubercolosi. La solitudine del Cesi veniva alleviata dalla visita di importanti Lincei come il botanico Fabio colonna, ma soprattutto dalla visita e permanenza ad Acquasparta del suo grande amico Galileo nell’aprile del 1624. Intanto era stato pubblicato dai Lincei il Saggiatore in cui Galileo riaffermava le sue tesi e dedicò queste lettere al Cardinale Barberini suo ammiratore. Questi venne nominato papa come Urbano VIII e grande fu la speranza che questo fosse un fatto adatto a cambiare se non cancellare il decreto del Santo Uffizio. Infatti da quando fu eletto a papa, un anno prima della visita, venne stabilito un intenso carteggio tra il Cesi ed il Galilei in cui questi sperava nell’opera di mediazione del suo amico. Il principe credette opportuno incontrarsi con l’amico fuori dalla sospettosa Roma e scelse Acquasparta che già usava da tempo per le sue meditazioni. Lo scienziato pisano rimase nel palazzo Cesi per due settimane come testimonia Giovan Battista Winther suo medico personale il quale annotò le lunghe conversazioni dei due anche davanti al camino. La concezione relativistica del moto doveva costituire il punto nodale delle loro conversazioni e riguardava proprio quei capisaldi della rivoluzionaria fisica inerziale che rendevano fisicamente possibili il moto della terra e degli altri pianeti. Già aveva manifestato la volontà di vedere la “caduta delle Marmore” e fu proprio durante questa gita che lo scienziato pisano compì al lago di Piediluco il primo esperimento relativistico di caduta di gravi in un sistema di riferimento in moto. Il resoconto dell’esperimento fu descritto dallo Stelluti in una lettera del 1633 in cui si ricordava che la teoria aristotelica dell’inerzia della terra era dimostrata dal fatto che se si faceva cadere un sasso da una torre, esso cadeva a piè di essa e non molto lontano muovendosi la terra ad alta velocità. Ma il Galilei affermava che il sasso ha due moti, uno diretto a cadere verso il basso e l’altro cagionatogli dal movimento della terra quindi farà quasi un semicircolo per i due moti che ha e cadrà in quel punto per questo motivo. Lo Stelluti descrive l’evento che confermò la tesi:
andando sul lago di Piediluco con una barca da sei remi che andava assai veloce, il Galilei gli chiese qualcosa di pesante e gli fu data una chiave che lui lanciò in aria e nonostante la barca avesse fatto otto o dieci braccia in avanti, ricadde dentro e non in acqua perché la chiave aveva anche il moto della barca e seguì il movimento di essa.
Quindi nel Palazzo Ducale di Acquasparta venne per la prima volta discusso il principio di relatività, vera pietra angolare della fisica moderna. Fu durante la permanenza del Galilei ad Acquasparta, che morì il giovane Linceo Cesarini turbando la felicità del loro incontro. Purtroppo il Galilei fallì la sua missione a Roma: il papa gli disse che la Santa Chiesa non aveva condannato il sistema copernicano come eretico ma come temerario. Quindi non riuscì a convincerli e così non potevano approvare.
Galileo fece quindi ritorno a Firenze e nel settembre del 1624 fece dono al Cesi dell’occhialino che qualche mese dopo Giovanni Faber volle chiamare microscopio. Questa fu una svolta per il principe il quale incominciò ad ammirare e contemplare la grandezza della natura: si servì subito del prodigioso strumento per le sue indagini per il regno vegetale e soprattutto sulle api, da cui venne fuori l’Apiarium.
Questa indagine si protrasse per lungo tempo per far sì che si riproducessero graficamente le api microscopicamente osservate e ne inviò copie al Galilei e al Colonna.
La pregevole incisione a bulino, la Melissografia, raffigurante in omaggio ad Urbano VIII il trigono delle api, è in assoluto la prima rappresentazione grafica di un insetto al microscopio.
Gli anni a seguire furono funestati dalle beghe familiari e da tristi fatti come la perdita di due figli maschi morti poco dopo nati e dalla morte del padre nel giugno del 1630. Intanto anche la sua salute peggiorò progressivamente fino a che ad Acquasparta fu colto da una febbre acutissima che il I° agosto lo portò alla morte all’età di 45 anni. Il Duca Federico II Cesi, Principe dei Lincei, giace ad Acquasparta nella Cappella che la sua bisnonna Isabella Liviani, fece costruire nella chiesa di S.Cecilia.
Il merito maggiore dell’Accademia dei Lincei, fondata da Federico Cesi, fu nel denunciare i limiti di una cultura ormai vecchia e sclerotizzata, adombrando una nuova figura di ricercatore chiaramente orientata verso l’indagine scientifica di cui i Lincei sono profondamente convinti che non debba essere lasciata all’elaborazione soggettiva ma di un lavoro collegiale ed ogni impresa scientifica debba essere il risultato di un lavoro collettivo. Un altro dei meriti dei Lincei è quello di aver capito che la ricerca sperimentale non può far a meno dell’apporto di quegli strumenti che permettono una adeguata visione dei fenomeni naturali noti e di scoprirne di nuovi.
Isabella Liviani. bisnonna di Federico Cesi il Linceo. apparteneva ad una nobile e possente famiglia di origine longobarda, venuta in Umbria con i Duchi di Spoleto i cui membri si erano sempre segnalati in imprese di guerra. In epoca comunale li troviamo a Todi e fu proprio lì che nacque il quinto figlio di Francesco Liviani e Isabella degli Atti, Bartolomeo.
Bartolomeo d’Alviano Liviani ebbe due mogli, Bartolomea Orsini dalla quale ebbe un solo figlio maschio. e Pantasilea Baglioni dal cui matrimonio nacquero quattro figlie femmine tra cui Isabella sposata a Giangiacomo Cesi.
Il prestigio e la potenza di Bartolomeo d’A1viano ricordati in numerosi documenti, hanno facilitato l’acquisizione indiretta di notizie riguardanti la figura e la vita della figlia Isabella che nacque probabilmente intorno al 1508.
Proprio dalle biografie di Bartolomeo, infatti apprendiamo che Isabella trascorse la sua adolescenza a Venezia, dove la famiglia del condottiero era ospitata in un palazzo della Giudecca.
Alla morte del condottiero d’Alviano. avvenuta nel 1515 la Repubblica Veneta non abbandonò le mogli e l figli, ma in segno di gratitudine per la singolare dedizione dimostrata da Bartolomeo alla Serenissima concesse alla famiglia in proprietà la casa della Giudecca, un ragguardevole vitalizio alla vedova e a ciascuna delle figlie una cospicua dote di 3000 ducati da consegnarsi al momento del matrimonio.
Le prolungate assenze del padre, impegnato in imprese militari e della madre, occupata a seguire le sue proprietà in Umbria, fecero si che l’educazione di Isabella fosse affidata a precettori qualificati che seppero infondere in lei un grande amore per la cultura che l’accompagnerà per tutta la vita.
La giovinezza di Isabella trascorse quindi in un ambiente colto e raffinato quale era quello di Venezia del rinascimento e alla corte di Francia. dove fu dama della regina Claudia.
Il matrimonio di Isabella con Giangiacomo Cesi avvenne con gran pompa il 28 novembre 1531 a Narni, dove lo sposo, malato di febbre quartaria era stato amorevolmente ospitato al ritorno da una spedizione.
Nelle “Riformanze”, conservate nell’archivio storico comunale di Narni, si racconta che il 28 novembre. alla terza ora di notte, vi fu una suntuosissima cena che si protrasse fino alla mezzanotte, con l’offerta di ricchi doni e al suono di trombe, pifferi e zampogne.
L’undici dicembre la comunità di Narni diede ancora una cena in onore dell’illustrissima signora Isabella di Alviano. con l’intervento delle principali personalità di Narni che vennero con le loro mogli vestite con abiti preziosi.
Un evento importante legato alla vita di Isabella avvenne nel 1540 quando ella permutò con il duca Pierluigi Farnese le terre di Alviano con quelle di Acquasparta e Portaria.
Ad Acquasparta trovò alloggio nel palazzo sull’antica Rocca che sorgeva presso la piccola piazza con la torre feudale, già utilizzata dai Bentivenga (riconoscibile ora in un locale a piano terra il loro stemma e il fregio sopra le finestre del primo ordine), ora il palazzo è all’inizio dell’attuale corso ed ha conservato l’ingresso con pietre bugnate e le finestre originali.
Da lì faceva rispettare la sua volontà ai paesani, che avendo goduto sia pure per breve tempo di libertà comunali, mal sopportavano la nuova signoria. In poco tempo, però, iniziò un periodo di grande stabilità economica, religiosa e sociale.
Con i Cesi si apre il periodo più bello della storia di questa terra. E con lei, rimasta vedova nel 1545, iniziarono quindi le opere che permisero la rinascita di Acquasparta: cingere nuovamente di mura la cittadina con torri e bastioni, correggere e livellare strade, restaurare edifici pubblici come la chiesa parrocchiale di S.Cecilia dandole decoro e l’impianto generale che conserva tuttora ed elevandola a basilica. Il cardinale Federico, fratello di suo marito Giangiacomo e vescovo di Todi, fece iniziare la costruzione del Palazzo Cesi, in luogo dell’antica Rocca, nel 1561 che divenne degna residenza per la sua famiglia nel 1579 quando fu portato a termine da suo nipote Federico. Nel 1537 il fratello di Isabella Livio Orsino, morì a Clerasco in Piemonte nel corso di un combattimento. Questa morte dovette colpire profondamente l’animo di Isabella.
Isabella, che era sopravvissuta al marito e al figlio, fece costruire nel 1581, adattandola alla struttura della chiesa di S.Cecilia, la cappella in cui volle fossero tumulate le spoglie di suo fratello e di un suo zio Bernardino Liviani vescovo di Norcia ed in cui volle essere sepolta lei stessa. L’anno dopo fece apporre nella chiesa di Santa Cecilia in Acquasparta, dove ella ormai risiedeva, un’epigrafe che ricordava, con il fratello lo zio.
Bemardini Liviani episcopi nuceriensis et Liviani qui martis stidio flagrans Egregiu virtutis speciem in fiore juventutis dederat
Ossa ex alviano traslata Isabellae Livianae Coesiae Neptis et sororis pietate hic posita teguntur MDLXXXII
Nello stesso anno fece sistemare dal Bianchi la piazza antistante il Palazzo per dargli un aspetto più decoroso.
Isabella ebbe due figli: Emilia sposa di Giordano Orsini e Angelo signore di Monticelli, generale dell’esercito della chiesa, sposo di Beatrice Caetani. Da questo matrimonio nacque Federico che nel 1588 il papa Sisto V°, eleggendo Acquasparta in ducato, lo proclamò Duca Federico I°. Questi sposò Olimpia Orsini ed il Primogenito maschio dei figli legittimi fu Federico (1585-1630), II° Duca d’Acquasparta, poi fondatore dell’Accademia dei Lincei.
Dalle letture e dai giudizi espressi dai più noti studiosi della famiglia Cesi, in Isabella emerge l’immagine di una donna dotata di grande energia e forza di carattere, una donna soave e virile insieme che si impegnò in opere di pietà e munificienza e che riuscì anche nel difficile ruolo di comporre antiche contese esistenti tra le famiglie narnesi Cardoli e Cesi.
Di lei ci resta anche l’immagine fisica: ella infatti volle essere raffigurata in un atteggiamento orante, nel quadro raffigurante il Crocifisso con la Madonna, Maria Maddalena e S. Giovanni Battista eseguito probabilmente dal Lombardelli e collocato nella cappella da lei edificata nella Chiesa di S.Cecilia. Isabella morì nel 1582 e fu sepolta nella tomba che si era fatta costruire da viva nella cappella suddetta.
Bentivegna (o Bentivenga), secondo due cronisti del XVIII secolo sarebbero stati i discendenti dei nobili di Acquasparta, che erano i più illustri cittadini di Todi. La duplice presenza ad Acquasparta ed a Todi si rivela una caratteristica costante di questa famiglia, fin dalle origini. La loro integrazione nella società di Todi fu totale, tanto che durante il 1200 ottennero cariche per la conduzione di importanti questioni civili e religiose.
E’ il caso del cardinale Matteo, la personalità piu illustre della famiglia , ma anche altri come Frate Oddone che nel 1254 ebbe il titolo di Ministro del convento di S.Fortunato a Todi, Galgano di Tommaso che nel 1294 fu nominato Podestà di Todi, Ranerio che nel 1297 fu podestà di Gubbio, Angelario , sempre un frate minore, venne eletto Vescovo di Todi nel 1278, Bentivenga, suo fratello , nel 1259 è Rettore dell’ospedale della carità di Todi e Vescovo fu nominato Cardinale nel 1278, Fra Gentile Vescovo di Nepi nel 1322.
I Bentivenga abitavano ad Acquasparta all’interno della Rocca nel castello con la torre feudale e, anche se nel 1300 persero parte del loro prestigio per motivi politici, rimasero incontrastati Signori di Acquasparta fino al 4 Settembre 1499 quando Altobello di Chiaravalle, con la sua armata, entrò nel castello di Acquasparta facendo strage e soprattutto sterminando la generazione dei Bentivenga che si erano schierati con le famiglie guelfe di Todi degli Orsini e degli Atti.
Matteo Bentivenga, Filisofo e Teologo, nacque ad Acquasparta intorno all’anno 1240 e morì a Roma nel 1302. Entrò giovane nell’Ordine dei frati minori, alunno nel Convento di S.Fortunato a Todi, fu allievo di San Bonaventura di cui ripercorse fedelmente tutte le tappe della sua vita religiosa. Frequentò poi l’Università di Parigi dove comincio ad insegnare e di cui fu reggente nell’anno accademico 1277/78; insegna quindi nell’anno acc. 1278/79 allo «Studium››, generale di Bologna e dal 1279 al 1287 fu «Lector sacri Palatii››.
Eletto (1287) XII Ministro Generale dal Capitolo adunatosi a Montpellier, durante i due anni del suo governo, riforma gli Statuti dello «Studium›› generale di Parigi. Il 16/ 5/1288 fu creato cardinale prete di S. Lorenzo in Damaso da Nicola IV, ma per desiderio del papa mantenne il governo dell’Ordine dei Francescani fino al Capitolo generale di Rieti (1289).
Nel 1288 fu eletto Cardinale da Papa Nicolò IV e nel 1290 succedette a Bentivegna nell’Ufficio di Penitenziere maggiore e fu creato cardinale vescovo di Porto a S. Rufina. Nello stesso anno ad Acquasparta ristrutturò la Chiesa di San Francesco spostandone l’ingresso nella parte opposta per creare un portico che unisse la chiesa con l’ospedaletto voluto da S.Francesco.
Perdurando la sede vacante (1292) dopo la morte di Nicola IV, il Cardinale Matteo, onde sottrarsi alle espressioni delle due rivali famiglie romane dei Colonna e degli Orsini tra di loro in asperrima lotta per l’elezione del nuovo pontefice, si ritira a Rieti, sul finire del 1292 si recò a Perugia per il Conclave, non senza essersi prima soffermato a Todi.
Allorché Celestino V, il nuovo pontefice dopo un assurdo governo di 5 mesi lesse in Concistoro (13/12/1292) la sua rinuncia al papato, Matteo fu tra i fautori più ardenti dell’elezione del card. Benedetto Caetani a Papa Bonifacio VIII. Sotto questo Papa svolse un ruolo importante nella politica della Chiesa: legato papale negli anni 1297/98 in Romagna per ridurre Cesena, Forlì e Faenza all’obbedienza della Camera Apostolica, indi nel 1300/01 a Firenze per mettere pace fra i Bianchi e Neri. Ma qui la sua venuta fu causa della rovina dei Bianchi e di Dante con essi; gli animi dei Fiorentini si accesero di maggiore sdegno e alcuni Bianchi scagliarono delle frecce contro le finestre del Vescovado. Il Cardinale, costretto dapprima a rifugiarsi oltr’Arno in casa di Tommaso Mozzi, fini con l’allontanarsi definitivamente dalla città toscana dopo averla fulminata con l’interdetto. Il Sommo Poeta nominò Matteo nella Divina Commedia (Paradiso canto XII, vv. 124-126)
Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio
Nostro volume, ancor troveria carta
O’ leggerebbe “I’mi son quel ch’i’ soglio”;
Ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
Là onde vengon tali a la scrittura,
ch’uno la fugge, l’altro la coarta.
E’ S. Bonaventura che dice: “i francescani come noi veramente osservanti della Regola minoritica non saranno né i seguaci di Umbertino da Casale Monferrato, che coarta la Regola stringendola soverchiamente, né quelli del Cardinale Matteo d’Acquasparta, un rilassato che la fugge e si allontana dal suo Spirito”.
Dante conobbe personalmente Matteo che vedeva in lui il fidato consigliere ed amico di Papa Bonifacio VIII, il quale per la sua elezione fece una guerra interna alla Chiesa per il potere e non contro Saraceni o Ebrei ma contro i cristiani. Ma soprattutto come “paciaro” a Firenze dove, invece che di pace la sua venuta fu foriera della rovina dei Bianchi e conseguentemente di Dante.
Come teologo fu un fedele continuatore della dottrina agostiniana strenuo e polemico difensore, riprese il pensiero di S.Bonaventura di cui fu fedele discepolo, per opporlo all’aristotelismo ed al tomismo. Matteo svolge il tema dell’illuminazione divina, secondo la teoria agostiniana della luce come fecondazione dell’intelletto,che in virtù di essa genera in sé la visione delle forme delle creature; nel governo dell’Ordine mostrò mitezza, benevolenza e un saggio senso di misura unito a grande abilità; come cardinale fu un coraggioso difensore del papato, specialmente di Bonifacio VIII.
Tra i suoi scritti Quaestiones de fide et de cognitione, Quaestiones de gratia e Quaestiones de anima.
E’ sepolto nela chiesa dell’Aracoeli dove si può ammirare il monumento funebre scolpito da Giovanni di Cosma.